Il regno di vetro
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Sarah è in fuga dagli Stati Uniti. Con sé ha un malloppo di 200.000 dollari che scottano. Sbarcata a Bangkok, si sistema in un fantomatico complesso residenziale, il Kingdom, quattro torri di ventuno piani, ciascuna collegata alle altre per mezzo di passaggi chiusi da porte di vetro che solo la chiave di sicurezza in possesso di ogni residente può aprire. Ma dietro un vetro, specchio delle nostre paranoie, si è sempre sotto stretta sorveglianza – e il rifugio può rivelarsi una prigione. Fuori tira aria di sommossa: anche il regime che domina il paese è di vetro. In quello spazio chiuso, di un lusso e un edonismo avvelenati, la protagonista farà conoscenza con tre altre donne: una cilena che prepara manicaretti, un'inglese con uno strano marito e una domestica più strana ancora, e una specie di prostituta eurasiatica d'alto bordo. Siamo tra i farang, gli stranieri viziati e viziosi, malvisti dalla popolazione locale e da sempre sottoposti all'impietosa indagine radiologica dell'autore, che con questi elementi miscela un cocktail torbido e insinuante. Si procede così, con tutti i sensi tesi e un po' alterati, nei meandri infidi e pieni di pericoli del Regno, fino alle ultime pagine dove Osborne, erede accreditato di Graham Greene, sfodera a sorpresa un finale degno di Ballard. E il lettore, che credeva di avere a che fare col più classico dei thriller esotici, si trova immerso con sgomento in una imprevedibile ghost-story.COME COMINCIAQuando si alzarono i venti del monsone, ai piani alti del Kingdom le piogge iniziarono a scrosciare appena prima dell'alba. In lontananza risuonarono le cannonate della tempesta. Dall'appartamento con le grandi finestre scorrevoli aperte Sarah percepì le folate persino dormendo; i gechi a caccia sulle pareti si sparpagliarono, puntando verso il soffitto, più ombroso. Sognò di essere a New York e di nuotare, sola e indisturbata, nella piscina interna del vecchio palazzo della YWCA sulla Cinquantatreesima, finché strepitò una sirena sperduta e la piscina si disintegrò. Sarah aprì gli occhi; tornò all'Equatore, la schiena madida di sudore. Provò un istante di paura, tastò il bordo del materasso per localizzarsi. Che giorno era? I koel lanciavano richiami in tutta la città – grida lamentose – e allora ricordò che sotto le finestre c'erano fazzoletti di giungla, alberi fiamma obliqui accanto ai magazzini del tabacco in rovina, immoti dall'occupazione giapponese. Dal burrascoso canale Saen Saeb nelle vicinanze si alzò un mormorio sommesso: i primi traghetti pendolari smossero l'acqua nera. Era sola tra le mosche, e la luna svettava ancora fra i grattacieli biancastri di Bangkok.
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