I minatori della Maremma
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Tra le 8.35 e le 8.45 del 4 maggio 1954 si verifica uno scoppio di grisù al pozzo Camorra, nella miniera di lignite di Ribolla. In seguito all'esplosione e all'incendio di polvere di carbone, muoiono quarantatré minatori. È una tragedia nazionale. Le salme vengono portate in un garage per essere ricomposte e identificate, poi allineate nella sala del cinema. Su ogni bara, l'elmetto da minatore e sotto lo schermo un altare di bandiere rosse. Le donne piangono; i vecchi operai ripetono la stessa frase come un salmo responsoriale: «L'avevamo detto tante volte che doveva succedere, ed è successo». In questa camera ardente improvvisata l'inchiesta che Carlo Cassola e Luciano Bianciardi stavano conducendo sulle condizioni di lavoro dei minatori toscani cambia natura. Entrambi si sono ormai affratellati a questi uomini dai polmoni sconciati, di poche parole, spesso di famiglia contadina e in maggioranza di fede comunista. Gli hanno prestato i loro libri, organizzato proiezioni e incontri, ne hanno ascoltato il destino di infortuni e silicosi. La sciagura non è dovuta a una tragica fatalità, ma «a una consapevole inadempienza» da parte della Montecatini: è il capitolo finale, il più doloroso, di una lunga storia di sfruttamento, dalla formazione delle prime società minerarie alla nascita dei villaggi operai, alle lotte antifasciste e sindacali. «I minatori della Maremma» diventa così un'orazione funebre e un atto d'accusa. Per Bianciardi sarà il libro d'esordio, e determinerà per sempre il segno rabbioso della sua scrittura. «La vita agra» nasce da queste pagine.
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