Teatro popolare. Notte all'italiana-Storie del bosco viennese-Kas...
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Non si vive di solo Brecht – e in questi ultimi anni, nei paesi di lingua tedesca, critici, lettori e pubblico hanno riscoperto con molto clamore un’altra grande figura del teatro del Novecento, la cui critica sociale non è certo meno corrosiva di quella di Brecht, e che pure da lui si differenzia in tutto, nei procedimenti, nell’educazione, nel senso della forma: Ödön von Horváth (1901-1938). Nel suo sangue si mescolavano molte delle nazioni dell’Impero, tanto che egli diceva di essere una «tipica faccenda austroungarica» – e, di fatto, Horváth può essere considerato come l’ultimo rappresentante del teatro viennese, che era sempre riuscito a essere, al tempo stesso, popolare e sottratto alle vane tentazioni del verismo. Ma Horváth si trovò davanti al paradosso di scrivere teatro popolare in un’epoca in cui il popolo era ormai diventato un’entità fantomatica – e in un periodo sinistro della storia, quando il nazismo era già una costellazione compiuta in tutti i suoi elementi e aspettava soltanto di raccogliere il potere. Horváth si accorse subito di vivere in un mondo abitato «per il novanta per cento da piccoli borghesi appena riusciti, o non ancora, a diventare tali, comunque da piccoli borghesi». Vide anche che la loro prima caratteristica era una sorta di fatale coazione a esprimersi, sentire, e vivere nel Kitsch. Riconosciuto questo dato, Horváth ne trasse le conseguenze formali con perfetta lucidità. Le sue grandi «commedie popolari», che in questo volume si presentano, sono tutte delle enormi ballate di morte, dove i numerosi personaggi si alternano con musicale leggerezza sulla scena per dire atroci frasi fatte e compiere infine atroci atti, sullo sfondo di musiche pregne di Kitsch o costrette di violenza a diventare tali: l’operetta, le canzoni di birreria, i valzer, la barcarola dei Racconti di Hoffmann. In un certo senso tutto questo teatro è citazione da una mostruosa, stravolta e inesauribile vox populi, e tale procedimento formale, di cui sono evidenti la novità e la portata, ha permesso a Horváth di penetrare forse più di ogni altro autore teatrale nella zona di melensa sentimentalità, accumulato rancore sociale, ammirazione per la ferocia, incancrenita ipocrisia, da cui è nato e nasce continuamente il fascismo. Per Horváth, la prima macchina teatrale delle sue commedie sono i riti collettivi della piccola borghesia: il picnic nei boschi, la «Oktoberfest» a Monaco, la «notte all’italiana». Gli innocenti passatempi della gente semplice illuminavano più di ogni altra cosa l’orrore ormai neppur più latente. E, dietro alle feste, traspare sempre un’immobile struttura di persecuzione, che apparirà a nudo nella parabola di Fede speranza carità. Oggi, la precisione e la chiaroveggenza di queste terribili commedie scritte ‘a caldo’ ci appare sempre più impressionante; ma, anche prescindendo dal momento storico a cui sono legate, dobbiamo riconoscere in Horváth uno dei più grandi esperti della stupidità e volgarità umane. «Nulla quanto la stupidità dà il senso dell’infinito»: in questo infinito egli guida il suo lettore ammirato e agghiacciato.

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